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Ritratto di Ettore Sottsass

I Grandi Maestri | Ettore Sottsass

Ettore Sottsass (autoritratto)

“Il rito dell’architettura si compie per rendere reale uno spazio che prima del rito non lo era. Lo spazio è reale quando è solido di attributi e pesante di significati, quando è condensato – come un brodo – di presenze e di suggestioni, quando cola – come un denso colore – di sorprese e di trasformazioni, quando impallidisce di ombre e si corrompe di luce (1956)” (1) Ettore Sottsass

Conseguito il diploma al liceo Scientifico, frequenta la facoltà di architettura del Politecnico di Torino, dove si laurea nel 1939. Nel 1947 a Milano apre il proprio studio, dopo aver lavorato con Giuseppe Pagano. Oltre alla passione per arte e design, si dedica anche alla fotografia. Nel 1957 diventa art director di Poltronova, per la quale progetta i “Superbox” – armadi ispirati segnali stradali o distributori di benzina – “Barbarella” (1965) e lo specchio “Ultrafragola” (1970).

Nel 1958 inizia una lunga collaborazione con Olivetti, in qualità di consulente per il design che lo porta a numerosi premi, tra cui tre Compassi d’oro. Per l’azienda d’Ivrea disegna tra l’altro il primo calcolatore elettronico italiano, “Elea 9003” (1959) e molte macchine da scrivere, tra le quali la “Praxis” (1964), “Tekne” (1964) e la celebre “Valentine” (1969, insieme a Perry King).

La macchina da scrivere Valentine di colore rosso(1969 – Macchina da scrivere “Valentine” per Olivetti – Ettore Sottsass – Photo courtesy: Pinterest)

Emilio Ambasz lo sceglie per rappresentare il nuovo design italiano alla mostra del MoMA intitolata “Italy. The new domestic landscape” nel 1972. In una serata del 1980 nel soggiorno di Ettore Sottsass, dove si trovano un gruppo di giovani designer e architetti, nasce Memphis. “(…) come necessità urgente di reinventarsi un modo di fare design, di prevedere altri ambienti, di immaginare altre vite” (2) Barbara Radice

Illuminazione

Illuminazione Design: la luce come elemento di design.

  • 1956 – Lampada da tavolo con cappello rovesciabile per Arredoluce – Ettore Sottsass
  • 1981 – Lampada da tavolo “Ashoka” per Menphis – Ettore Sottsass

Dettaglio della lampada Ashoka, progettata da Ettore Sottsass(1981 – Lampada da tavolo “Ashoka” per Menphis – Ettore Sottsass – Photo courtesy: Pinterest)

  • 1981 – Lampada da terra “Treetops” per Menphis – Ettore Sottsass

Treetops, lampada da terra progettata nel 1982(1981 – Lampada da terra “Treetops” per Menphis – Ettore Sottsass – Photo courtesy: Pinterest)

  • 1981 – Lampada da tavolo “Tahiti” per Menphis – Ettore Sottsass

Lampada da tavolo Tahiti per Menphis(1981 – Lampada da tavolo “Tahiti” per Menphis – Ettore Sottsass – Photo courtesy: Pinterest)

  • 1981 – Lampada da terra “Callimaco” per Artemide – Ettore Sottsass

Callimoco, una lampada da terra progettata da Ettore Sottsass(1981 – Lampada da terra “Callimaco” per Artemide – Ettore Sottsass – Photo courtesy: Pinterest)

Dialogo tra Ettore Sottsass e Franco Raggi – 22 febbraio 1996

E in Italia cosa state facendo?
Gli interni per “Malpensa 2000” , il progetto per la sale VIP dell’Alitalia nel mondo, poi faccio anche le mie cose…

Cosa vuol dire “le tue cose”, c’è differenza?
Certo, questo studio lo vedi è un po’ come una fabbrica con tanti lavori e tanti che lavorano, ma però non è una fabbrica o meglio abbiamo cercato di fare in modo che no lo sia. E’ importante sviluppare una politica di gruppo gradevole, non c’è l’orario di entrata e d’uscita, ci diamo del tu e su ogni progetto si cerca di creare intensità ed entusiasmo; poi naturalmente ci sono quelli che contano di più, ma non ci sono dei “capi”, io credo che l’autorevolezza non derivi dalle gerarchie…allora a me sembra che qui non sia né una fabbrica né un’industria. Non lavoriamo per il fatturato o per il reddito ma per fare abbastanza bene dei progetti.

In una dimensione così allargata del lavoro la qualità cosa diventa, come la si può controllare?
Io passo circa quattro ore al giorno a vedere e discutere progetti che altri seguono nel dettaglio, a discutere e dire questo va bene , qua si può cambiare eccetera, eccetera e secondo me riusciamo a realizzare progetti di abbastanza intensa qualità perché innanzitutto i miei partner sono tutti molto bravi e culturalmente omogenei, cioè sappiamo dove vogliamo andare a sbattere culturalmente e politicamente…

E’ un problema di stile?
No è un problema di metodo anche se lo stile è pure metodo è un metodo di comunicare …

Quando parli di cose “fare le cose tue” a cosa pensi?
Ci sono i progetti piccoli che sono più privati ma non sono minori. Faccio le mostre, i soliti mobili, i vetri, gli oggetti, i miei disegni, poi adesso sono anche diventato un fotografo, cioè io l’ho sempre fatto , ma adesso qualcuno ha deciso che non sono solo un architetto e un designer ma proprio un fotografo vero e mi chiamano, mi chiedono di fare mostre e libri… è un po’ una attività frenetica, quasi un’ossessione perché sai alla fine anche fare un libro è un progetto di comunicazione dove devi decidere un sacco di cose…poi c’è “TERRAZZO” che fa la Barbara (Radice) dove abbiamo deciso di finire come rivista ma come continuare come casa editrice con una serie di …libri “sottili” un po’ chic, un po’ snob.

Come hai affrontato il tema dell’aeroporto alla Malpensa?
Da viaggiatore. Ho cercato di pensare ad un luogo che accompagnasse e un po’ consolasse le ansie del viaggiatore sia di quello che arriva che di quello che parte. Quello che parte un po’ di ansia ce l’ha sempre..sai se son seduto qui son più tranquillo che se son seduto a diecimila metri; e quello che arriva è stanco, incazzato, stufo…eccetera. E sopratutto ho cercato di evitare l’idea che l’aeroporto viene disegnato come metafora di una organizzazione. Perché il tema in realtà è quello di accomodare un signore più o meno stanco, più o meno agitato, in modo che si calmi…

E come hai evitato i luoghi comuni della metafora aeroportuale?
Per esempio ho vietato il più possibile l’uso dell’acciaio inox, allora o è legno, o è tessuto e se è laminato abbiamo inventato con l’Abet un laminato che sembra carta che ha dentro delle impurità che gli danno un po’ di profondità, che non ha quella compattezza gelida dei laminati; e l’idea mi è venuta da un pacco di carta arrivato dal Giappone…

E per l’illuminazione?
Abbiamo cercato di dare dei suggerimenti per differenziare. Io non capisco perché negli aeroporti ci si deve sentire come su una scena teatrale con un sacco di luce quando magari, mentre aspetti, desideri dei luoghi in penombra, giusto per leggere un po’. Abbiamo cercato di differenziare e anche di annullare i riflessi usando materiali e superfici opache.. pietre.

Che modello di riferimento hai preso?
La hall di albergo, di certi alberghi…perché io sto malissimo in aeroporti come Monaco o Vienna, come quelle robe che fa Foster piene di tubi saldati, di cristalli, perché non vedo la necessità di insistere sulla metafora tecnologica che non calma nessuno, mentre un aeroporto che fosse tutto come una Stube con in bicchiere di birra o un gulasch…beh, lo capirei di più. In fondo io vorrei che gli aeroporti non ci fossero proprio, intendo come tipologia istituzionale, vorrei poter prendere l’aereo come l’autobus, so che è difficile però ci posso provare… scusa un momento … (…)

Se vuoi dalla tua infanzia austriaca nei boschi. Ecco una di queste metafore di cui ci nutriamo è forse quella della natura del concetto di naturale che è sempre più una specie di valore mitico, utopico, perché in realtà nel nostro vissuto siamo circondati e ci appoggiamo ad un universo quasi totalmente artificiale.
Sì questo vale per noi west-metropolitani, già se vai in Cina o in India, il cielo lo vedi di più, e anche nelle grandi metropoli il contatto con la luce, le temperature, gli odori non è così mediato; noi viviamo quasi costantemente in luci, temperature, odori, materie progettate, costruite, manipolate, allora è difficile parlare di progetto ecologico, io non so bene cosa voglia dire, cioè lo capisco ma allora a quelli che ne parlano direi che sarebbe meglio andare a parlarne agli eserciti non ai designer. Perché noi il pianeta lo consumiamo pochissimo…tu pensa cos’é una portaerei, pensa alla distruzione ecologica di una guerra o a quelle quattro bombe atomiche in Polinesia…poi è vero che bisogna pensarci ma è un problema politico planetario rispetto al quale noi progettisti possiamo ben poco.

Non sei ottimista?
Direi più fatalista, anche se poi essere fatalisti vuol dire essere un po’ ottimisti. Sono fatalista nel senso che ti dicevo prima; intanto noi siamo condizionati da nascite da educazioni, da luoghi, dalle origini. Già individualmente noi siamo depositati nella Storia in maniera “pesante”; Il fatto che mio padre avesse studiato a Vienna e fosse pieno di libri tedeschi di architettura, io lo sento come un condizionamento pesante, quasi fatale; non sono nato in Polinesia e andavo a prendere i pesci con le mani. Si pensa sempre troppo poco alla forza dei condizionamenti culturali del tempo e dello spazio. Ed è proprio su queste condizioni che sviluppiamo ogni tanto le deformazioni che sono i progetti. Quando noi ci gasiamo per la Ginza e le luci al neon piuttosto che per le plastiche multicolori è perché vogliamo in qualche modo lavorare su questi condizionamenti. Ed è anche per questo che ogni tanto devo andare un po’ fuori dalle scatole a disintossicarmi.

E’ per questo che l’unica casa che hai comprato è a Filicudi nel mezzo del Mediterraneo…
Vicino a un vulcano di qualche milione di anni, difficile da raggiungere, senz’acqua, l’acqua la portano… in fondo è un’isola artificiale; fino a ieri non aveva neanche l’elettricità e adesso che c’è ci dobbiamo abituare ci dà quasi fastidio questo abbagliamento. Perché tu lì ti abitui al fatto che la luce cala col sole e poi non c’è più a allora con le candele o l’acetilene crei delle piccole zone di luce al di là delle quali c’è il buio, la penombra ed una esperienza pazzesca, lo spazio cambia ed impari cose nuove.

Cosa hai imparato?
In certi casi ad usare poca luce. Per esempio abbiamo fatto a Maastricht l’allestimento di una mostra di sculture africane del museo di Dresda, un patrimonio straordinario. E io ho pensato che non dovevano essere guardate come noi siamo abituati a guardare le sculture, perché quelle erano strumenti di rito e in Africa quando le facevano non c’erano mica i tubi al neon o quelle cose lì; allora ho fatto delle stanze buie e ho messo delle reti sottili davanti alle vetrinette così tu le sculture le vedevi solo quando eri davanti, erano apparizioni che nascevano dal buio in una condizione di mistero…ecco queste osservazioni si possono fare se impari a usare il buio come complemento della luce.
La luce non è analizzabile per via matematica, non è un numero, può cambiarti la percezione e la qualità delle materie, dei colori, dello spazio…

Dialogo tra Ettore Sottsass e Franco Raggi (2)

C’è una bellissima frase: “La luce crea l’atmosfera, la luce crea la sensazione di uno spazio, la luce è anche l’espressione della struttura”. Queste parole sono di Le Corbusier. In uno dei suoi edifici – Notre Dame du Haut a Ronchamp – mette in pratica questo concetto, utilizzando il rapporto tra luce e ombra. Il Lighting Design deve tener conto del dialogo tra luce e ombra.

Pensiero di Ettore Sottsass raccolti da Franco Raggi – Gennaio 2005

Anch’io sono andato a trovarlo. Mi piace ricordarlo con alcune delle parole che mi ha detto sull’ombra, un pomeriggio, al tramonto; e con altre parole che aveva scritto anni prima sulla luce, però quella della luna. (3) Franco Raggi

Ombra

La parola ombra mi piace molto perché “ombra” vuole dire in un certo senso mistero, incertezza. Certo l’ombra non è l’oscurità. Ma nell’ombra succedono cose misteriose ed è l’ombra che ci dà la dimensione dello spazio. Mi sono accorto che quando faccio un disegno, anche piccolo, supponi di una sedia, una stupidaggine qualunque, io metto sempre l’ombra. Se non disegno l’ombra non c’è la terza dimensione. Non per fare paragoni ma anche Picasso le metteva. Poi ci sono superfici, monumenti, architetture, che sono fatti di ombre, tu puoi vederli guardando le ombre. (agosto 2007)

Luce

Non è il contrario dell’ombra … credo, ed è importante che non ce ne sia troppa. È ancora una volta il problema di permettere ambigua, di non dare definizioni. Non ho mai pensato alla luce da sola. (agosto 2007)

Ombra

Innumerevoli opere di architettura, case, palazzi e templi sono stati costruiti pensando all’ombra. Una penombra oscura che subito diviene una visibile e reale metafora dell’impenetrabile struttura dell’esistenza. Basta avventurarsi in questi immensi volumi di architettura pieni di gigantesche innumerevoli colonne per capire / sentire che l’oscurità diventa il mistero assoluto dell’esistenza. Luogo di paura e di protezione. Immagine finale della realtà. (1989)

La luce della luna

(a Filicudi) … quando c’è la luna piena, come c’è stata la notte del 28 luglio 1988, l’isola viene percorsa da una luce strana e magica. Le case e le terrazze sbiancano come fosse giorno, i prati diventano color madreperla e i cespugli di capperi, gli alberi di carrubo, gli ulivi selvatici e gli eucalipti diventano buchi neri come caverne e nessuno sa da chi sono abitati. Per l’isola di Filicudi , in qualche notte dell’anno, la luna è una potente lampada fredda; non serve molto agli uomini(forse serve agli amanti che si tuffano nudi nell’acqua luccicante) ma serve credo, ai conigli selvatici, forse ai topi, forse ai gufi o forse ai serpenti. Certamente ai cani la luna piena non piace; riempiono il silenzio dell’isola di latrati inquieti. Quello che uno può pensare, ad ogni modo, è che le case dell’isola non sono disegnate per ricevere luce dalla luna piena. Come ho già detto, durante le ore della luna piena, quasi tutti gli uomini e le donne sono stanchi e giocano mezzi morti nei loro letti o nei letti altrui e la luna la usano poco, pochissimo. Perciò le architetture dell’isola Flilicudi non sono disegnate per ricevere e controllare la luce della luna piena. Del resto, a dire la verità, anche parlando in generale, io so poco delle architetture disegnate per la luce fredda delle notti di luna piena e ancor meno conosco architetture disegnate per le notti di luce galattica, voglio dire per le notti illuminate da quella luce imprendibile, da quella luce senza ombra che mandano giù i cieli stellati … (da “La Luce della Luna” pubblicato su Terrazzi n°2, 1989) (4)

Bibliografia:
(1) https://www.domusweb.it/it/progettisti/ettore-sottsass-jr.html
(2) Alberto Bassi, La luce italiana, Milano, 2003, Electa
(3) Courtesy Franco Raggi: Dialogo tra Ettore Sottsass e Franco Raggi – 22 febbraio 1996
(4) Courtesy Franco Raggi: Pensieri di Ettore Sottsass raccolti da Franco Raggi pubblicato su Flare – Architectural Lighting Magazine – n°47 – settembre 2008 – pag. 116

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